Pierluigi Di Diego | Chef https://www.pierluigididiego.com La pagina personale dello chef Pierluigi di Diego. Tue, 16 Jun 2020 17:35:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.1.19 Le seduzioni del Don Giovanni https://www.pierluigididiego.com/le-seduzioni-del-don-giovanni/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=le-seduzioni-del-don-giovanni Wed, 28 Oct 2015 21:15:14 +0000 http://www.pierluigididiego.com/?p=1231 Don Giovanni, l’avevamo lasciato fra le righe di libretti e spartiti, un po’ annoiato dalla coazione a ripetere delle sue imprese amatorie, l’ugola strinata dalle acrobazie sulle note. E invece lo ritroviamo a Ferrara, ad officiare i riti non meno viscerali della tavola, praticamente una metempsicosi della verve seduttiva per antonomasia. Amour fou dal 18 novembre…

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Don Giovanni, l’avevamo lasciato fra le righe di libretti e spartiti, un po’ annoiato dalla coazione a ripetere delle sue imprese amatorie, l’ugola strinata dalle acrobazie sulle note.
E invece lo ritroviamo a Ferrara, ad officiare i riti non meno viscerali della tavola, praticamente una metempsicosi della verve seduttiva per antonomasia. Amour fou dal 18 novembre 1998, data ufficiale della riconversione professionale con apertura del ristorante dedicato. Prima a Marrara, una frazione di Ferrara; poi dal novembre 2003 nella sede cittadina attuale.

Il Ristorante, la location è speciale: il cortile dell’ex borsa, a quattro passi dai merli del castello estense, fra gli echi del clangore delle sciabole e del cigolare dei ponti levatoi; dove sedata la concitazione degli agenti, al posto delle quotazioni sono le forchette e i coltelli ad alzarsi ritmicamente e a riabbassarsi. Il quadrato del cortile coperto si spalanca verso il cielo appaltando tutto un lato alla ristorazione di qualità. In versione multisala, visto che accanto alla saletta minuta dedicata ai gourmet irriducibili (appena 7 tavoli, oggi ridotti a 6), con piccola finestra sui fornelli, c’è il wine bar con le tovagliette e l’air decontracté della bistronomia transalpina. Piatti seri a poco prezzo senza lesinare sul prodotto, primum movens delle manovre di cucina: lui e solo lui smuove il sangue caldo del playboy di Siviglia.

I Don Giovanni a dire il vero sono due, lo chef Pierluigi Di Diego e il suo alter ego liquido Marco Merighi. E con tutto quel che è stato detto e scritto sul rapporto cibo/vino, fra competizione e complicità, negativi fotografici e puzzle, basta un colpo d’occhio per afferrare il senso vero di un compiuto mariage. Il quale prima di tutto è un racconto: nella fattispecie, quello dell’incontro fra due giovinezze talentuose e appassionate. Irrequieta e bisbetica la prima, come ardente dei fuochi di cucina e delle braci della memoria; ponderata, loquace e fantasmagorica la seconda, levigata dal labor limae del contatto di sala. In comune l’anticonformismo e il rigore, l’intransigenza e l’immaginazione. Due fuoriclasse che lavorano per differenza come un instancabile motore a vapore.

Galeotto fu il Trigabolo, è proprio il caso di dirlo, luogo del primo incastro delle tessere del puzzle. Pierluigi vi approdò nel 1992 dopo l’Alberghiero e qualche peregrinazione prevalentemente italiana e vi restò fino alla fine, quando le miserie della contabilità misero fine al più bel sogno della ristorazione italiana. Tempo sufficiente per imbeversi di una filosofia visionaria fin negli alveoli spugnosi più minuti: con anticipo quasi ventennale sulle voghe locavore, lo studio maniacale del prodotto, spesso “povero” e popolare, e la massima abbreviazione della filiera con la discesa letterale in campo, fra galline razzolanti e filari di pomodori. Una conoscenza allestita ex nihilo fuori dai circuiti ufficiali, vivacizzata dalla spensieratezza rock di una generazione fortunata.

Anche Marco aveva alle spalle gli insegnamenti dell’alberghiero, puntellati dalla pratica nel fine settimana e d’estate, in particolar modo a Milano Marittima, in un cinque stelle dove il lusso pareggiava il rigore. Prima esperienza gastronomica importante nel 1988 a Ferrara con un allievo di Paracucchi e una cantina ipertrofica. Qualche altro ristorante, poi il Trigabolo, anche lui fino alla fine. Seguono la California, con un lungo stage in Napa Valley, al fianco di un grande allievo di André Tchelitchew, e un paio d’anni con Bruno Barbieri alla Locanda Solarola. Un anno dedicato alla vendita del vino, come consulente per una ditta di import dal nuovo mondo, gli lascia un’unica certezza: “Non ce la facevo a vendere in quel modo ciò che amavo”.

Stessa inquietudine al Don Giovanni: “Nel 1998 con l’apertura del ristorante ho iniziato a essere insofferente verso un mondo del vino che non mi dava più grandi emozioni, da qui è iniziato il percorso dei vini ‘naturali’ (li chiamo così solo per distinguerli dai prodotti convenzionali). La formazione migliore in questo campo rimane il dialogo con i produttori, magari con i piedi affondati nelle loro terre! Ma anche il confronto con i colleghi e tutte le persone che ne fanno materia di dialogo, ospiti inclusi”.

L’esplosione del Trigabolo non fu a breve gittata: “Io e Pierluigi ci salutammo ad Argenta con un abbraccio dicendoci : ‘Chissà forse un giorno potremmo aprire un ristorante insieme’. All’inaugurazione scoprimmo che c’era gente che scommetteva su quanti giorni saremmo rimasti in società… A Marrara dividevamo l’appartamento sopra al ristorante, incluso nell’affitto, e si vociferava che la nostra fosse più di una società. Per carità, niente in contrario su chi opera affettivamente determinate scelte, ma allora che senso aveva chiamarlo ‘Il Don Giovanni’? Pierluigi un capricorno, io un ariete, ci siamo scornati su questioni importanti e anche banali, ma sulla gastronomia mai. Su quella c’è una consonanza bellissima, la forza che ci ha uniti nel lavoro in questi anni”.

La sinergia è incalzante come un match. “Parlando per metafore, i nostri piatti sono spesso il risultato di partite a ping-pong, dove la pallina è una materia prima, il dritto è la manualità straordinaria di Pierluigi, il rovescio la mia attitudine a utilizzare la memoria gustativa e l’esperienza sensoriale del vino con le sue combinazioni chimico-fisiche e aromatiche, i palleggi gli altri ingredienti, che virtualmente si aggiungono o si tolgono nel calderone delle tecniche di lavorazione, a caldo o a freddo. Creatività a parte, credo che la principale dote di Pierluigi sia la capacità di realizzare qualsiasi ricetta della cucina regionale e non solo, con una sensibilità rara nella percezione della materia prima. La grande umiltà rispetto ai colleghi abbinata a capacità di osservazione e di confronto”.

Come definire la proposta del tandem? Pervicacemente italiana, irriducibile, no global. Passionale ma non impaziente. Rigorosa senza accademismi. Concreta. I natali abruzzesi e le matrici contadine dello chef tengono a battesimo consistenze tenaci, garanzia di lunghezza in bocca, che vengono esaltate volentieri dalla liquidità evanescente e up-to-date delle salse. Spesso imbastiti su accostamenti tradizionali (i fiori di zucca con mozzarelle e acciughe sono un esempio calzante), i piatti imprimono loro il twist della freschezza e chiudono il cerchio nel calice da bere. Partendo sempre dal prodotto, dicevamo, che fa rima perlopiù con territorio. Il pesce di Porto Garibaldi o di Goro, ma anche l’olio abruzzese del Di Diego senior, operaio dell’Alfa Romeo di Arese tornato alle origini geografiche e rurali famigliari.

Abolito il menu degustazione per lasciare campo libero ai capricci del cliente, i percorsi fantasia (guidati su richiesta) si snodano per una carta misurata ma varia, ben equilibrata fra la terra e il mare, con parecchi spiragli sul vegetarianismo.

Lo zenit si raggiunge nel comparto pasta, dove il piatto più amato dagli italiani ritrova la pregnanza della sua formulazione originale, senza scivolare sulla china stravagante e artificiosa delle recenti quanto innumerevoli rivisitazioni avanguardiste. Pasta e basta, insomma, null’altro che farina e uova: un virtuosismo che non dimentica i gesti delle nonne e delle mamme ma li completa con gli input del professionismo e l’empiria personale. Tanto che Pierluigi stende la sfoglia al matterello con quattro tecniche diverse, al fine di uniformare lo spessore e ottimizzare la testura; per poi trattarla con un sentimento che definisce “animale”, sentendo dentro la compenetrazione con il sugo nel brivido amoroso o forse erotico dell’eroe eponimo del ristorante.

Esemplare in questa chiave l’icona della casa, gli spaghetti alla chitarra, retaggio della patria abruzzese dello chef, conditi con aglio (rigorosamente di Voghiera), extravergine (rigorosamente italiano) e peperoncino su una fonduta di Parmigiano Reggiano (18 euro). Un omaggio ai 150 anni dell’unità d’Italia, disponibile in entrambi i punti di ristoro. Marco li abbina per via di vegetalizzazione, cioè scegliendo vini ricchi di proteine vegetali, affinché indossino un cappotto della loro stessa stoffa, ad esempio una Vernaccia di San Gimignano Fiore di Montenidoli.

Fra le 4 entrées spicca la terrina di canocchie crude con pomodori confit ai tre pesti, ormai un classico della casa (22 euro). Nel bicchiere chiama lo iodio di un Riesling o di un Sauvignon, ad esempio Ghiaia di Monte, per riequilibrare la bassa sapidità del pesce dell’Alto Adriatico con il retaggio dei terreni morenici. Come i primi, anche i secondi fra cui pescare sono 5. A risaltare è la lombatina di agnello con ostriche, bietoline e Carignano in Anfora di Gabrio Bini (32 euro), dove la sapidità del pasto degli agnelli si esalta nell’eco iodato del coquillage, per poi scontrarsi con un pezzo di scoglio del Mediterraneo, nei sentori di capperi, acciughe e macchia (32 euro).

Mentre la fantasia esplode ai dolci, dove la cassatina di pomodori verdi con gel al pepe verde e sciroppo al lime e coriandolo fornisce una materializzazione fedele del Recioto di Soave I Capitelli 1996, grazie alla sinergia fra Pierluigi e Marco (12 euro). Anche se nel bicchiere scivola un Vinsanto Trentino di Francesco Poli del medesimo anno: al naso una mostarda di pomodori verdi, acidità su acidità. Il coperto, comprensivo di pane fatto in casa, è di 5 euro.

Un po’ diversa l’offerta al Wine bar, che propone un’ampia selezione di salumi e formaggi (i piatti misti, dove brillano autentiche chicche, costano 15 euro), carni allo spiedo e alla griglia (il filetto a 20 euro), ma anche piatti fumanti che escono dalla cucina della casa madre, a un prezzo un po’ più contenuto, e altre specialità, come la misticanza (5 euro) e l’insalata di mazzancolle al vapore con pompelmo rosa (16 euro). L’offerta, compresi i piatti del giorno, viene vergata ogni mattina da Pierluigi su una lavagna, che poi gira fra i tavoli. Il coperto è di 2,5 euro.

“È la classica formula di ristorazione che sta prendendo piede negli ultimi anni in Europa e nel mondo, dettata dalla necessità di contenere i costi al consumo, ampliare la fascia di clientela, snellire il servizio e accorciare i tempi di somministrazione”, commenta Marco. “Il tutto seguendo sempre una filosofia qualitativa che si basa essenzialmente su canoni quali: Stagione, Territorio, Buono e Sano. Su quest’ultimo valore è fondata anche la scelta dei vini (oltre 40 tipi al calice tutti i giorni): i cosiddetti vini ‘naturali’, risultato di processi agricoli che escludono l’utilizzo di fertilizzanti, pesticidi, ormoni e quant’altro possa snaturare l’originalità del frutto rispetto al territorio, e soprattutto rispetto a un pianeta in equilibrio con l’universo. Mosti trasformati in vino da fermentazioni spontanee, se possibile senza l’aggiunta di solfiti”.

La cantina, comune ai due punti di ristoro, ha sede in quel che fu il caveau della banca che qui aveva sede. Sono circa 600 etichette, tutte provenienti da scelte post degustazione, o meglio ancora dal “mangiometro”, come Marco definisce il palato. Dei calici abbiamo già detto, mentre le mezze bottiglie sono poche, anzi pochissime: appena qualche vino dolce o liquoroso. E i magnum (si lamenta) troppo pochi. Variabili i ricarichi, improntati al criterio della compensazione e alla cura di chi ama bere, con una forbice che spazia dal 100 e al 250%.

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Di Diego e Merighi Chef olimpici https://www.pierluigididiego.com/di-diego-e-merighi-chef-olimpici/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=di-diego-e-merighi-chef-olimpici Wed, 28 Oct 2015 21:05:17 +0000 http://www.pierluigididiego.com/?p=1228 Ferrara, 31 luglio 2012 – IL SOGNO a cinque cerchi tiene banco a Casa Italia. Pardon, a Casa Ferrara: oggi e domani, atleti e dirigenti del ritrovo ufficiale del Coni a Westminster, gusteranno infatti specialità realizzate dallo chef del Don Giovanni Pierluigi Di Diego, uno dei cuochi ‘stellati’ chiamati a Londra a gestire il punto…

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Ferrara, 31 luglio 2012 – IL SOGNO a cinque cerchi tiene banco a Casa Italia. Pardon, a Casa Ferrara: oggi e domani, atleti e dirigenti del ritrovo ufficiale del Coni a Westminster, gusteranno infatti specialità realizzate dallo chef del Don Giovanni Pierluigi Di Diego, uno dei cuochi ‘stellati’ chiamati a Londra a gestire il punto nevralgico dell’ospitalità italiana. Di Diego ai fornelli, ma soprattuttoMarco Merighi socio del locale dell’ex Borsa — a fungere, per tutta la durata delle Olimpiadi, damaitre di sala e sommelier del ristorante «in cui tra atleti, dirigenti delle federazioni, ospiti e sponsor si alternano durante l’intera giornata quasi 900 persone — esordisce Merighi —: un impegno faticoso, ma anche un’esperienza eccezionale».

Merighi non è nuovo al clima delle Olimpiadi: «Ho già partecipato a Casa Italia nel 1998 per i giochi invernali di Nagano, in Giappone — prosegue —, qui però il clima e non solo metereologico ma anche sportivo e professionale è straordinario, di altissimo livello». Il lavoro è serrato, sin dai giorni precedenti la cerimonia di inaugurazione: «Abbiamo preparato il ristorante, ed iniziato subito ad accogliere ospiti di prestigio», dice Merighi il cui primo incontro «è stato con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che alla vigilia dei Giochi ha partecipato al Gala organizzato dal Coni». Poi attenzione sugli atleti: «Il giorno dell’avvio delle gare ci ha dato subito la scossa, mentre stavamo lavorando arrivavano le notizie delle prime medaglie d’oro e ci siamo sentiti elettrizzati — sorride Merighi —; sapevamo, infatti, che in serata tutti i vincitori sarebbero venuti a mangiare e brindare. E noi dovevamo essere pronti a ricompensare il loro sforzo eccezionale».

ECCO dunque arrivare il trio del tiro con l’arco («Hanno apprezzato molto cibo e buon vino: competenti e golosi», dice il maitre ferrarese), poi le supercampionesse della scherma. «Mi ha colpito in particolare Valentina Vezzali: minutina e all’apparenza scontrosa, si è rivelata una persona squisita, disponibile. E poi l’atmosfera era trascinante, c’era un’emozione palpabile in tutti: atleti, cuochi, camerieri!». Prima delusione, quella di domenica per il mancato successo di Federica Pellegrini:«L’aspettavamo tutti, evidentemente — prosegue Merighi —, ma già oggi potrà rifarsi con la gara a lei più congeniale».

E proprio oggi, tra l’altro, Pierluigi Di Diego sarà protagonista assoluto ai fornelli: lo chef del Don Giovanni è arrivato domenica a Londra, oggi e domani il menu di Casa Italia sarà proprio quello messo a punto nel ristorante di Largo Castello. «Proporremo spaghetti aglio, olio e peperoncino in fonduta di parmigiano — spiega Marco Merighi —; poi il pollo al macis con salsa al mais, accompagnato da bietola fritta. Una sorta di omaggio alla cucina inglese. Infine la nostra cassata di pomodori verdi al pepe verde, lime e coriandolo. Un altro piatto in stile… tricolore, e con il quale contiamo di rendere le serate di oggi e domani speziate e piccanti!».

GRANDE attenzione all’accoglienza, ma anche «la sensazione di far parte, pur modestamente, di un’avventura che rende tutti entusiasti e desiderosi di far bene — saluta il maitre del Don Giovanni —; ogni medaglia, ogni gara, ogni speranza ci trova tutti uniti e pronti a giore, comunque vada la prova. Anche se il brindisi, va detto, è riservato solo agli atleti che hanno già concluso le proprie fatiche…».

di Stefano Lolli

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Intervista di di Livia Elena Laurentino https://www.pierluigididiego.com/intervista-di-di-livia-elena-laurentino/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=intervista-di-di-livia-elena-laurentino Tue, 27 Oct 2015 22:54:23 +0000 http://www.pierluigididiego.com/?p=1220 Come e perché ha cominciato a fare lo chef? Ho iniziato come tutti in maniera tradizionale, ho deciso di fare il cuoco a 12 anni e a 14 andavo a scuola la mattina e la sera lavoravo…mica come i ragazzi di oggi che, mentre studiano, si accontentano di fare i servizi al sabato e alla…

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Come e perché ha cominciato a fare lo chef?

Ho iniziato come tutti in maniera tradizionale, ho deciso di fare il cuoco a 12 anni e a 14 andavo a scuola la mattina e la sera lavoravo…mica come i ragazzi di oggi che, mentre studiano, si accontentano di fare i servizi al sabato e alla domenica.

Sono quasi 30 anni che faccio questo mestiere sempre con lo stesso impegno. A parte il fatto che la passione me l’ha trasmessa sicuramente mia mamma, ottima cuoca. Ho cominciato con la manipolazione della pasta, trascuravo i giocattoli, mi divertivo a stare in cucina e mi mettevo lì per ore a giocare con la pasta. Sono figlio di abruzzesi, anche se sono nato a Milano.

Lei è milanese di nascita , abruzzese da parte dei genitori e trapiantato a Ferrara, cosa resta delle sue origini?

Mi rimane soprattutto il carattere, la forza di volontà , sono persone tenaci, dure, gli abruzzesi sono un po’ rustici con un grande senso del terroirie d’altra parte hanno prodotti straordinari.
Vede i miei genitori non hanno nemmeno l’automobile perché nessuno dei due guida, ma in 70 metri quadri di casa, c’erano due frigoriferi sempre letteralmente “bombati” di cibo. Ecco io sono cresciuto con questo grande rispetto per il cibo.

Come concilia in cucina queste tre regioni?

Noi poco distante dal ristorante abbiamo mezzo ettaro di terra con una persona che ce lo cura, lì coltiviamo zucche, che sono tipiche ferraresi, ma anche le mele, ma la mia cucina è italiana, non ha una connotazione regionale. Anche perché ho lavorato in quasi tutte le regioni italiane.

Quale mestiere avrebbe fatto se non faceva lo chef?

Forse il massaggiatore, visto che si adoperano le mani, o forse anche l’orafo ma ho una grande passione per la fotografia quindi credo che sarei diventato un bravo fotografo.

Qual è l’ingrediente che non manca mai nella sua cucina?

Assolutamente l’olio di extra vergine di oliva, non si inizia a cucinare se non c’è l’olio, tutti lo danno per scontato ma non è così. Anche l’aglio è importante e poi che dire, le erbe aromatiche non possono mancare assolutamente,come d’altra parte la pasta, che è il mio alimento preferito.

Un aggettivo per definire la sua cucina …

La mia cucina è vera, semplice e sincera, oltre che onesta, rispecchia il mio carattere.

Il più bel complimento che ha ricevuto?

A me piace far star bene la gente, considero questo lavoro come una missione. Penso che sia quello che deve ancora arrivare, ma mi accontento di “Bravo, è molto buono“ …

Cosa nel pensa della grande attenzione dei media che c’è oggi verso la gastronomia?

Bene ! Dico io, finalmente si stanno interessando dei “grembiuli sporchi”, ma il problema è la gente che sembra aver scoperto adesso la cucina, ma abbiamo mangiato fino a ieri ! E la televisione non fa sempre bene.

Masterchef è un format serio, è una delle poche trasmissioni, che merita di essere vista.
Ci sono personaggi che diventano famosi, si arricchiscono, alle spalle di questo mestiere, che spesso non sanno neanche fare.

Il risultato è che tutto ciò che si vede non è sempre la verità. Io mi impegno tutti i giorni nella mia cucina e sono contento lo stesso !

La ricetta del cuore:

Spaghetti alla chitarra all’aglio, olio e peperoncino in fonduta di Reggiano

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Di Diego, lo Chef libero da schemi https://www.pierluigididiego.com/pier-luigi-di-diego/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=pier-luigi-di-diego Tue, 27 Oct 2015 22:24:32 +0000 http://www.pierluigididiego.com/?p=1213 Senza schemi in cucina…Pierluigi di Diego Metti un bistrot che si affaccia sulla piazzola interna di un signorile palazzo, dove guardando in alto vedi il cielo attraverso una bella geometria di vetrate, e una cupola di alici marinate di Porto Garibaldi, belle grasse e invitanti, accompagnate da biscottati crostini. C’è già quanto basta per iniziare…

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Senza schemi in cucina…Pierluigi di Diego

Metti un bistrot che si affaccia sulla piazzola interna di un signorile palazzo, dove guardando in alto vedi il cielo attraverso una bella geometria di vetrate, e una cupola di alici marinate di Porto Garibaldi, belle grasse e invitanti, accompagnate da biscottati crostini. C’è già quanto basta per iniziare a volare via!
Mi avvento sulle alici come se fosse un sacchetto di patatine, una tira la l’altra. Le divoro avidamente non preoccupandomi nemmeno di preservare uno spazio per altri piatti. Prima di ritrovarle ancora così buone!…

Mi trovo al Bistrot La Borsa a Ferrara, la seconda creatura dello chef Pier Luigi Di Diego, dopo il rinomato ristorante Don Giovanni, limitrofo. Sono ferma alla alici, il piatto più semplice, o per meglio dire conosciuto, fra quelli in menù. Pochi ingredienti sapientemente calibrati mi restituiscono un’armonia di sapori straordinaria! Già parla la mano che ci sta dietro.
Una simpatica lavagnetta treppiedi con il menù del giorno, scritta dallo stesso Pier Luigi, che viene spostata da un tavolo all’altro via via che si deve ordinare, stuzzica, stuzzica su più piatti. È briosa tentazione, emana effervescenza e porta a chiedersi “oggi di cos’ho più voglia tra tutto questo ben di Dio?”

Ci pensa Laura Galantuomo, la giovane moglie di Pier Luigi, a guidarmi nella scelta. Si avvicina al tavolo, discreta e sorridente, mi racconta e consiglia. Crea una bella atmosfera il suo approccio. Lascia un segno. Fino a qualche tempo fa c’era Marco Merighi, socio di Pier Luigi e maitre di sala, trasferitosi all’estero. Ora c’è lei, bellissima in quel ruolo. E professionale, con l’impronta di impresa che sta conferendo all’attività.
Ha fatto la sua scelta di lasciare un’importante posizione sempre nel settore ed è salita in tandem con il marito, a condividere un progetto. Con coraggio e con forza. Se li guardo insieme dico con amore.

A tratti compare Pier Luigi, si affaccia sulla scena, un saluto, una battuta o il servizio di un piatto al tavolo. Informale, bizzarro, fuori dalle righe. La sua spontaneità ispira al primo approccio simpatia, parla in maniera diretta lasciando trapelare un bel pensiero libero da schemi. Motivo per cui la simpatia per lui, perlomeno la mia, raddoppia.

Ha tanti amici Pier Luigi e nella sua cerchia di “addetti ai lavori” ne conta di molto cari.

Come Bruno Barbieri, che oggi è arrivato al bistrot in compagnia di un paio di commensali ed è entrato con la familiarità di uno che si sente a casa sua.

A legare Pier Luigi a Bruno Barbieri come a Giacinto Rossetti, Igles Corelli, Mauro Gualandi e poi Marcello Leoni, Italo Bassi, Marco Ghezzi, Sandro Trioschi, Vincenzo Morgia fu il Trigabolo, una delle esperienze più straordinariamente visionarie e innovative del fare ristorazione in Italia, che ha preso vita in quel di Argenta tra il 1983 e il 1993.

Uno dei pochi casi in cui la critica si è trovata concorde all’unisono nel riconoscerne l’incredibile valore sotto molteplici aspetti: a partire dal reale lavoro di squadra, senza rigide gerarchie, con libertà di apporto di idee da parte di tutti, la liberazione della creatività, il cambio del menù ogni giorno…

Non sorprendiamoci quindi se in Pier Luigi troviamo quel guizzo che lo rende altro e per questo così bello rispetto al modo più comune di approcciare alla cucina. All’epoca del Trigabolo era un giovanissimo chef, lì si è forgiato e lì ha preso il coraggio di manifestarsi come lo vediamo oggi. Siamo affamati di saperne di più, noi arrivati dopo. Pier Luigi e compagni di brigata, sono queste le notizie con cui ci vogliamo nutrire. Non può esserci cultura enogastronomica nel nostro Paese senza una conoscenza di ciò che di meglio ha saputo partorire!

Simona Vitali

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