Don Giovanni, l’avevamo lasciato fra le righe di libretti e spartiti, un po’ annoiato dalla coazione a ripetere delle sue imprese amatorie, l’ugola strinata dalle acrobazie sulle note.
E invece lo ritroviamo a Ferrara, ad officiare i riti non meno viscerali della tavola, praticamente una metempsicosi della verve seduttiva per antonomasia. Amour fou dal 18 novembre 1998, data ufficiale della riconversione professionale con apertura del ristorante dedicato. Prima a Marrara, una frazione di Ferrara; poi dal novembre 2003 nella sede cittadina attuale.
Il Ristorante, la location è speciale: il cortile dell’ex borsa, a quattro passi dai merli del castello estense, fra gli echi del clangore delle sciabole e del cigolare dei ponti levatoi; dove sedata la concitazione degli agenti, al posto delle quotazioni sono le forchette e i coltelli ad alzarsi ritmicamente e a riabbassarsi. Il quadrato del cortile coperto si spalanca verso il cielo appaltando tutto un lato alla ristorazione di qualità. In versione multisala, visto che accanto alla saletta minuta dedicata ai gourmet irriducibili (appena 7 tavoli, oggi ridotti a 6), con piccola finestra sui fornelli, c’è il wine bar con le tovagliette e l’air decontracté della bistronomia transalpina. Piatti seri a poco prezzo senza lesinare sul prodotto, primum movens delle manovre di cucina: lui e solo lui smuove il sangue caldo del playboy di Siviglia.
I Don Giovanni a dire il vero sono due, lo chef Pierluigi Di Diego e il suo alter ego liquido Marco Merighi. E con tutto quel che è stato detto e scritto sul rapporto cibo/vino, fra competizione e complicità, negativi fotografici e puzzle, basta un colpo d’occhio per afferrare il senso vero di un compiuto mariage. Il quale prima di tutto è un racconto: nella fattispecie, quello dell’incontro fra due giovinezze talentuose e appassionate. Irrequieta e bisbetica la prima, come ardente dei fuochi di cucina e delle braci della memoria; ponderata, loquace e fantasmagorica la seconda, levigata dal labor limae del contatto di sala. In comune l’anticonformismo e il rigore, l’intransigenza e l’immaginazione. Due fuoriclasse che lavorano per differenza come un instancabile motore a vapore.
Galeotto fu il Trigabolo, è proprio il caso di dirlo, luogo del primo incastro delle tessere del puzzle. Pierluigi vi approdò nel 1992 dopo l’Alberghiero e qualche peregrinazione prevalentemente italiana e vi restò fino alla fine, quando le miserie della contabilità misero fine al più bel sogno della ristorazione italiana. Tempo sufficiente per imbeversi di una filosofia visionaria fin negli alveoli spugnosi più minuti: con anticipo quasi ventennale sulle voghe locavore, lo studio maniacale del prodotto, spesso “povero” e popolare, e la massima abbreviazione della filiera con la discesa letterale in campo, fra galline razzolanti e filari di pomodori. Una conoscenza allestita ex nihilo fuori dai circuiti ufficiali, vivacizzata dalla spensieratezza rock di una generazione fortunata.
Anche Marco aveva alle spalle gli insegnamenti dell’alberghiero, puntellati dalla pratica nel fine settimana e d’estate, in particolar modo a Milano Marittima, in un cinque stelle dove il lusso pareggiava il rigore. Prima esperienza gastronomica importante nel 1988 a Ferrara con un allievo di Paracucchi e una cantina ipertrofica. Qualche altro ristorante, poi il Trigabolo, anche lui fino alla fine. Seguono la California, con un lungo stage in Napa Valley, al fianco di un grande allievo di André Tchelitchew, e un paio d’anni con Bruno Barbieri alla Locanda Solarola. Un anno dedicato alla vendita del vino, come consulente per una ditta di import dal nuovo mondo, gli lascia un’unica certezza: “Non ce la facevo a vendere in quel modo ciò che amavo”.
Stessa inquietudine al Don Giovanni: “Nel 1998 con l’apertura del ristorante ho iniziato a essere insofferente verso un mondo del vino che non mi dava più grandi emozioni, da qui è iniziato il percorso dei vini ‘naturali’ (li chiamo così solo per distinguerli dai prodotti convenzionali). La formazione migliore in questo campo rimane il dialogo con i produttori, magari con i piedi affondati nelle loro terre! Ma anche il confronto con i colleghi e tutte le persone che ne fanno materia di dialogo, ospiti inclusi”.
L’esplosione del Trigabolo non fu a breve gittata: “Io e Pierluigi ci salutammo ad Argenta con un abbraccio dicendoci : ‘Chissà forse un giorno potremmo aprire un ristorante insieme’. All’inaugurazione scoprimmo che c’era gente che scommetteva su quanti giorni saremmo rimasti in società… A Marrara dividevamo l’appartamento sopra al ristorante, incluso nell’affitto, e si vociferava che la nostra fosse più di una società. Per carità, niente in contrario su chi opera affettivamente determinate scelte, ma allora che senso aveva chiamarlo ‘Il Don Giovanni’? Pierluigi un capricorno, io un ariete, ci siamo scornati su questioni importanti e anche banali, ma sulla gastronomia mai. Su quella c’è una consonanza bellissima, la forza che ci ha uniti nel lavoro in questi anni”.
La sinergia è incalzante come un match. “Parlando per metafore, i nostri piatti sono spesso il risultato di partite a ping-pong, dove la pallina è una materia prima, il dritto è la manualità straordinaria di Pierluigi, il rovescio la mia attitudine a utilizzare la memoria gustativa e l’esperienza sensoriale del vino con le sue combinazioni chimico-fisiche e aromatiche, i palleggi gli altri ingredienti, che virtualmente si aggiungono o si tolgono nel calderone delle tecniche di lavorazione, a caldo o a freddo. Creatività a parte, credo che la principale dote di Pierluigi sia la capacità di realizzare qualsiasi ricetta della cucina regionale e non solo, con una sensibilità rara nella percezione della materia prima. La grande umiltà rispetto ai colleghi abbinata a capacità di osservazione e di confronto”.
Come definire la proposta del tandem? Pervicacemente italiana, irriducibile, no global. Passionale ma non impaziente. Rigorosa senza accademismi. Concreta. I natali abruzzesi e le matrici contadine dello chef tengono a battesimo consistenze tenaci, garanzia di lunghezza in bocca, che vengono esaltate volentieri dalla liquidità evanescente e up-to-date delle salse. Spesso imbastiti su accostamenti tradizionali (i fiori di zucca con mozzarelle e acciughe sono un esempio calzante), i piatti imprimono loro il twist della freschezza e chiudono il cerchio nel calice da bere. Partendo sempre dal prodotto, dicevamo, che fa rima perlopiù con territorio. Il pesce di Porto Garibaldi o di Goro, ma anche l’olio abruzzese del Di Diego senior, operaio dell’Alfa Romeo di Arese tornato alle origini geografiche e rurali famigliari.
Abolito il menu degustazione per lasciare campo libero ai capricci del cliente, i percorsi fantasia (guidati su richiesta) si snodano per una carta misurata ma varia, ben equilibrata fra la terra e il mare, con parecchi spiragli sul vegetarianismo.
Lo zenit si raggiunge nel comparto pasta, dove il piatto più amato dagli italiani ritrova la pregnanza della sua formulazione originale, senza scivolare sulla china stravagante e artificiosa delle recenti quanto innumerevoli rivisitazioni avanguardiste. Pasta e basta, insomma, null’altro che farina e uova: un virtuosismo che non dimentica i gesti delle nonne e delle mamme ma li completa con gli input del professionismo e l’empiria personale. Tanto che Pierluigi stende la sfoglia al matterello con quattro tecniche diverse, al fine di uniformare lo spessore e ottimizzare la testura; per poi trattarla con un sentimento che definisce “animale”, sentendo dentro la compenetrazione con il sugo nel brivido amoroso o forse erotico dell’eroe eponimo del ristorante.
Esemplare in questa chiave l’icona della casa, gli spaghetti alla chitarra, retaggio della patria abruzzese dello chef, conditi con aglio (rigorosamente di Voghiera), extravergine (rigorosamente italiano) e peperoncino su una fonduta di Parmigiano Reggiano (18 euro). Un omaggio ai 150 anni dell’unità d’Italia, disponibile in entrambi i punti di ristoro. Marco li abbina per via di vegetalizzazione, cioè scegliendo vini ricchi di proteine vegetali, affinché indossino un cappotto della loro stessa stoffa, ad esempio una Vernaccia di San Gimignano Fiore di Montenidoli.
Fra le 4 entrées spicca la terrina di canocchie crude con pomodori confit ai tre pesti, ormai un classico della casa (22 euro). Nel bicchiere chiama lo iodio di un Riesling o di un Sauvignon, ad esempio Ghiaia di Monte, per riequilibrare la bassa sapidità del pesce dell’Alto Adriatico con il retaggio dei terreni morenici. Come i primi, anche i secondi fra cui pescare sono 5. A risaltare è la lombatina di agnello con ostriche, bietoline e Carignano in Anfora di Gabrio Bini (32 euro), dove la sapidità del pasto degli agnelli si esalta nell’eco iodato del coquillage, per poi scontrarsi con un pezzo di scoglio del Mediterraneo, nei sentori di capperi, acciughe e macchia (32 euro).
Mentre la fantasia esplode ai dolci, dove la cassatina di pomodori verdi con gel al pepe verde e sciroppo al lime e coriandolo fornisce una materializzazione fedele del Recioto di Soave I Capitelli 1996, grazie alla sinergia fra Pierluigi e Marco (12 euro). Anche se nel bicchiere scivola un Vinsanto Trentino di Francesco Poli del medesimo anno: al naso una mostarda di pomodori verdi, acidità su acidità. Il coperto, comprensivo di pane fatto in casa, è di 5 euro.
Un po’ diversa l’offerta al Wine bar, che propone un’ampia selezione di salumi e formaggi (i piatti misti, dove brillano autentiche chicche, costano 15 euro), carni allo spiedo e alla griglia (il filetto a 20 euro), ma anche piatti fumanti che escono dalla cucina della casa madre, a un prezzo un po’ più contenuto, e altre specialità, come la misticanza (5 euro) e l’insalata di mazzancolle al vapore con pompelmo rosa (16 euro). L’offerta, compresi i piatti del giorno, viene vergata ogni mattina da Pierluigi su una lavagna, che poi gira fra i tavoli. Il coperto è di 2,5 euro.
“È la classica formula di ristorazione che sta prendendo piede negli ultimi anni in Europa e nel mondo, dettata dalla necessità di contenere i costi al consumo, ampliare la fascia di clientela, snellire il servizio e accorciare i tempi di somministrazione”, commenta Marco. “Il tutto seguendo sempre una filosofia qualitativa che si basa essenzialmente su canoni quali: Stagione, Territorio, Buono e Sano. Su quest’ultimo valore è fondata anche la scelta dei vini (oltre 40 tipi al calice tutti i giorni): i cosiddetti vini ‘naturali’, risultato di processi agricoli che escludono l’utilizzo di fertilizzanti, pesticidi, ormoni e quant’altro possa snaturare l’originalità del frutto rispetto al territorio, e soprattutto rispetto a un pianeta in equilibrio con l’universo. Mosti trasformati in vino da fermentazioni spontanee, se possibile senza l’aggiunta di solfiti”.
La cantina, comune ai due punti di ristoro, ha sede in quel che fu il caveau della banca che qui aveva sede. Sono circa 600 etichette, tutte provenienti da scelte post degustazione, o meglio ancora dal “mangiometro”, come Marco definisce il palato. Dei calici abbiamo già detto, mentre le mezze bottiglie sono poche, anzi pochissime: appena qualche vino dolce o liquoroso. E i magnum (si lamenta) troppo pochi. Variabili i ricarichi, improntati al criterio della compensazione e alla cura di chi ama bere, con una forbice che spazia dal 100 e al 250%.